“CANCRO”…”TUMORE”, ero una bambina quando ho sentito per la prima volta questa nuova parola associata a mia nonna. Era di facile intuizione che non fosse una cosa bella, seppur i miei genitori provavano ad edulcorare il suo lungo, faticoso e doloroso percorso.
Avevo dodici anni e col passare degli anni la parola cancro diventava sempre più il terzo incomodo di molte famiglie. Seminava terrore, e semina ancora terrore, negli occhi e nel cuore di chi si scontrava, e si scontra tutt’ora, con l’enorme incognita di chi si siede di fronte ad un oncologo per la prima volta.
Lo so che è così, ho provato la stessa sensazione quando a vent’anni una bella oncologa dal sorriso avvolgente mi ha accolta nel suo studio insieme ad un alterato c.a. 125 ed un alterato cea.
Ma il cancro non nasce con mia nonna, le sue origini sono molto antiche. Seppur negli ultimi decenni ha avuto una rapidissima ed elevatissima diffusione, documentandomi ho scoperto che sin dall’era dei papiri vi sono tracce.
Nell’’antico papiro di Kanu del 1850 a.C. è descritto il cancro; in quello di Ebers del 1550 a.C. è una condizione incurabile. Edwin Smith nel 1600 a.C. descrive otto casi di tumori o ulcere delle mammelle trattate mediante cauterizzazione. Tra il 460 ed il 370 a.C., il papà della medicina, Ippocrate ribadisce la non durabilità delle neoplasie e parla per la prima volta di carcinoma. L’origine etimologica di questo termine è granchio, perché proprio come l’animale si divora i tessuti con una morsa dolorosa ed acuta.
È proprio da Ippocrate che voglio partire e da una sua frase che trovo in stretta connessione con l’argomento di quest’articolo: “La cosa più importante in medicina? Non è tanto la malattia di cui il paziente è affetto, quanto la persona che ne è affetta”. Parto da qui perché oltre quel granchio affamato di morte, ci sono migliaia di donne assetate di vita. Una vita che scorre come un fiume che improvvisamente sbatte contro massi di pietra.
Oggi riporto l’esperienza di una donna che si è ammalata molto giovane e che per molto ha portato addosso i segni della malattia.
“Ho combattuto per molti anni contro la leucemia mieloide cronica, con terribili alti e bassi dopo il trapianto di midollo, con lentissime riprese e devastanti ricadute. Oggi sono completamente guarita. Quali sono state le mie carte vincenti, nella lunga partita contro la malattia? Sicuramente l’aiuto dei medici e delle terapie. Unito ad alcune “strategie” mentali, che ho messo in atto spontaneamente, e ad alcune mie convinzioni, che ho seguito con fermezza. Eccole. Ho deciso a priori, con assoluta determinazione, che non volevo lasciare orfani i miei figli, costasse quel che costasse. Non mi sono accontentata. Non ho accettato di recuperare soltanto una scarsissima qualità di vita, ripiegandomi nell’autocommiserazione, e non mi sono fermata davanti ai “Non si può fare altro” che mi venivano detti riguardo alle cure. Ho cambiato, e ho cercato medici migliori e più competenti, non solo a livello professionale, ma anche umano. Questo, anno dopo anno, mi ha riportata a una condizione di salute prima totalmente impensabile. Ho inventato un piccolo “trucco” mentale: mentre mi trovavo a vivere situazioni drammatiche, ho sempre continuato a dire a me stessa di “mettere una cosa bella vicino a una brutta”. Accarezzando i miei bambini, crescendo con loro, continuando a tenere vive tutte le mie passioni, in particolare quelle artistiche, sono riuscita a rinnovare il gusto della vita, per bilanciare il dolore, la paura, il cambiamento del mio corpo, le invasioni fisiche, l’isolamento sociale degli anni più bui. Ho dato ascolto alla disperazione degli altri, cercando di aiutarli, più che alla mia. Ho taciuto i lati più terribili della mia situazione, per proteggere la mia famiglia dalla disperazione e dalla disgregazione derivanti dalla mia lunghissima malattia. Ho continuato a concentrarmi sui progressi, anche minimi, invece di focalizzarmi solo sul dolore e sui danni patiti per la malattia. In questo modo, ho potuto “fare il tifo” per me stessa, gratificandomi per ogni piccolo passo avanti che facevo, e togliendo attenzione e peso alla sofferenza. Ho “approfittato” della malattia, utilizzandola per lavorare su me stessa: prima per cercare le cause profonde, psicologiche e umane, che mi hanno indotto ad ammalarmi, e poi per trovare un nuovo modo di stare al mondo, in modo che questa esperienza fosse utile per me stessa e per gli altri. Quello che ho scoperto è che non ci vuole un coraggio eroico, come dicono, per tornare a vivere dopo una malattia grave: ci vuole una testarda, silenziosa, quotidiana costanza; una forza che non sai di avere, ma scopri dentro di te man mano che vai avanti. A chi sta ancora combattendo, dico solo che ha già dentro di sé quello di cui ha bisogno, l’unico vero antidoto alla malattia e alla morte: il gusto della vita. Perché, per ogni cosa brutta che ci succede, ce n’è sempre una magnifica da metterle vicino: i figli, l’amore, gli affetti, le passioni, la meraviglia del mondo, e di sé stessi”
Da donna attaccata alla vita, invito tutti a ricercare una qualità della vita che sia sana, fatta di piccole attenzioni quotidiane, e non solo quelle. Parlo di alimentazione, di movimento, di prevenzione e soprattutto parlo di tempo. Il giusto tempo per lavorare, il giusto tempo per dedicarsi ai figli, il giusto tempo per non dimenticare di prendersi cura di sé stessi, della propria mente e del proprio corpo. Credo fermamente nell’importanza che ha il benessere psicofisico nella gestione di momenti duri come quello che si vive durante una malattia. Credo nel potere dell’ottimismo, che non è credere che andrà sempre tutto bene, piuttosto è “abbinare una cosa bella ad ogni cosa brutta”.
Non serve rincorrere la vita, così facendo oltre l’affanno ci lascia ben poco. Auguro a tutti, ed in particolar modo alle donne per il mese della prevenzione del tumore al collo dell’utero, di riscoprire la propria naturale ed innata forza, e di rifiorire tutte le volte in cui ci sarà bisogno. Siate la primavera di cui avete bisogno.
Articolo a cura di
Stefania Angelico